Enzo Di Stefano

Dove ci eravamo lasciati? Ah, già, ai “sunatura” degli anni ’60 di Misiliscemi. Ricordi legati a mio padre, in una realtà familiare e sociale uscita da poco più di un decennio dalla Seconda Guerra Mondiale, dove tutto era da ricostruire. E insieme alla ricostruzione delle cose materiali era necessario ricostruire la fiducia di intere comunità nell’aspettativa di un futuro migliore. Penso sia stato questo sentimento a spingere mio padre, ancora ragazzo, a recarsi a piedi da Salinagrande a Trapani dopo le sue normali ore di lavoro per studiare musica ed imparare a suonare il violino. 

Ricordo ancora l’espressione e la sua postura mentre eseguiva le sue melodie, era come se le note tirassero fuori dal profondo del suo cuore tutto ciò che non sarebbe mai riuscito a dire con le parole. Sentimento ed espressività spesso sono indipendenti dalla bravura o meno di chi suona uno strumento e credo che valga per tutti, professionisti o dilettanti. Penso ai pastori che realizzavano flauti di canna – i cosiddetti friscaletti che nelle lunghe ore di solitudine passate pascolando il gregge componevano melodie che diventavano la colonna sonora della natura, così come i canti di lavoro dei carrettieri, dei “salinari”, dei pescatori o dei contadini, che con le loro melodie scandivano le lunghe ore di fatica.

Era necessario fare questa premessa, soprattutto a me stesso, prima di cominciare a narrare le vicende e le esperienze musicali vissute personalmente in questo territorio di Misiliscemi. Mi alzavo la mattina presto per prendere il treno che mi avrebbe condotto a scuola, all’Istituto d’Arte – oggi Liceo Artistico – di Mazara del Vallo. Nel tratto di strada che percorrevo a piedi da casa mia per raggiungere la stazione di Salinagrande, vedevo il sole albeggiare fra i vigneti, gli alberi di ulivo e qualche casa in costruzione. Poi il viaggio in treno con il quale dopo circa un’ora arrivavo alla stazione di Mazara e dovendo percorre un tratto di strada a piedi per raggiungere la sede scolastica, spesso sceglievo il percorso più lungo passando così per via Vittorio Veneto dove c’era un bel negozio di strumenti musicali e lì mi fermavo a guardare le chitarre esposte. 

A casa avevo già quella elettrica di mio padre che già strimpellavo – la mitica Meazzi Hollywood – ma era poco pratica, non si sentiva il suono senza l’amplificatore e poi, ad esempio, non avrei potuto portarla alle gite con la classe o d’istituto dove era consuetudine cantare in gruppo, soprattutto durante il viaggio in autobus. Lì si occupavano gli ultimi posti che erano riservati ai più “casinisti”, ma anche a chi suonava la chitarra e visto che ognuno proponeva il proprio brano preferito dovevi conoscere – anche approssimativamente – un vasto repertorio musicale. Perciò non poteva mancare mai “Ci son due coccodrilli…”, ma soprattutto la parodia di “Bandiera Rossa” con le rime adattate ai cognomi dei professori presenti sull’autobus. Ricordo che pressappoco faceva così: “Avanti popolo alla riscossa, dei professori vogliam le ossa, del signor preside vogliam la pelle, ce ne freghiamo delle bidelle…”. Ho nostalgia di tutto ciò e confesso che, soprattutto adesso che insegno alle superiori, mi capita di accompagnare in ragazzi in gita e chiedere: La conoscete “Bandiera rossa”? Quella delle gite… Niente. Sarei stato curioso di sentire quale rima avrebbero associato al mio cognome, ad esempio io l’avrei buttata giù così: “Per il Di Stefano il discorso è a parte, aboliremo storia dell’arte!”.

Quei miei primi anni alle superiori, uniti ai consigli di mio padre, sono stati per me come una palestra dove allenare e rinforzare le mie fragili e incerte abilità musicali, fino a farmi venire i calli alle dita della mano sinistra. Inoltre, pur non confessandolo mai a mio padre, studiai un po’ di musica da autodidatta. L’ultimo anno prima degli esami di stato, durante il consueto viaggio in “littorina”, Salvatore – mio compagno di viaggio che frequentava l’istituto Tecnico di Mazara – mi chiese se ero disposto ad entrare a far parte di un complesso musicale di giovani ragazzi marsalesi in cui Nicola, un suo compagno di classe, suonava la tastiera. Accettai e quando lo dissi a casa, mio padre, celando malamente un sorriso mi rispose con la fatidica frase che quasi tutti i genitori dicono ai figli: “Solo se verrai promosso e prenderai un buon voto di diploma”.  Avrei potuto far meglio, ma mi diplomai con 52/60, quindi… era fatta! La prima sera in cui entrai nella band vennero a prendermi a casa a Salinagrande con una vecchia Fiat 600 e tutto cominciò così. Il gruppo aveva già un nome, si chiamava “Le 4 Stagioni” e ne facevano parte Nicola Tranchida alla tastiera, Vito Licari al basso, Antonio Bonafede voce e batteria e io alla chitarra. Suonammo insieme per circa un anno, dopodiché, io e Antonio Bonafede che purtroppo da poco tempo ci ha lasciati, fondammo il gruppo musicale “Reportage”, diventando una delle band di maggiore successo nel marsalese. Proprio a Marsala, insieme a Giacometta ora mia moglie, cominciammo a scoprire la musica folk siciliana e dopo aver fatto parte di diversi gruppi della città ne fondammo alcuni di nostra iniziativa, fra cui “Vuci di Salina”, “Triquetra”, “Ericefolk” ed “Ericetnika”. 

Nel 1995 per iniziativa di alcuni cittadini di Salinagrande, venne fondata l’Associazione “Vuci di Salina”, a farne parte ricordo fra tutti: Felice Daidone, Salvatore Daidone, Leo Russo, Peppe Toscano e diversi altri. Credo che fosse un primo, timido tentativo di aggregare le persone intorno ad alcune iniziative ricreative e culturali in un territorio che, seppur ricco di potenzialità, era per lo più abbandonato a sé stesso. Fra le varie iniziative intraprese dall’associazione vi fu quella nel 1996 di creare un coro folklorico, composto da giovani e meno giovani di Salinagrande e delle contrade limitrofe, si trattava in particolar modo di persone senza alcuna esperienza musicale o canora pregressa.

Vuci di Salina”, come dal nome stesso si può immaginare, ebbe origine a Salinagrande ed era formato da giovani e famiglie provenienti da diverse contrade dell’attuale Misiliscemi. Nel gruppo, fra gli altri, hanno suonato insieme a me il maestro Enzo Toscano di Salinagrande al violoncello, la maestra Laura Trapani di Marausa al flauto traverso, il mio amico Pino di Rosa anch’esso di Marausa al mandolino, Andrea Maggio di Rilievo al tamburello e al friscaletto, Ciccio e Peppe Giacalone insieme a molti altri ancora. Fra le tante cose belle che abbiamo fatto, ricordo la prima e ahimè ultima “Sagra del Sale” che si svolse dal 10 al 14 Settembre 1997 e poi per due anni successivi le commedie musicali “La baronessa di Carini” e “Il cuore non invecchia”, portate in scena insieme all’Associazione “Teatro e vita” di Giovanni Malato di Paceco.

Per la “Sagra del Sale” si organizzarono cinque giorni di festeggiamenti con la partecipazione, oltre al nostro, di altri gruppi folk fra cui il “Coro delle Egadi” di Trapani e il “Coro Turri di Mezzu” di Marausa. Sfilate, musica e balli per le vie della contrada con al seguito i tipici carretti siciliani riccamente addobbati a festa provenienti da Calatafimi. Inoltre, nella zona di “Uccello Pio” si svolsero degli eventi musicali che avevano come unica scenografia il bellissimo tramonto sulle isole Egadi e il profilo illuminato del mulino a vento d’ ‘u zu Peppi Caninu. Ricordo che in quel sito i ragazzi dell’Associazione allestirono una scenografia composta da un “munzeddu” di sale con relativi “pali” e “catteddi”, tutto dentro e fuori un tendone che ospitava una mostra fotografica di Pino Di Rosa con tema relativo ai paesaggi del territorio di Misiliscemi.

Da quel momento il gruppo “Vuci di Salina” si consolidò esibendosi in occasione di tante iniziative canore e sagre paesane; qualche tempo dopo fu creato un sottogruppo composto di soli musicisti e dalla cantante solista. Questi si occupavano soprattutto di ricerca musicale e testi antichi del vasto e spesso sconosciuto repertorio siciliano, nonché di proprie composizioni. Il gruppo fu denominato “Triquetra” – così come i latini chiamavano la Sicilia, cioè “a tre vertici” – e con questa formazione partecipammo nel 1997 al “Terzo Festival di Musica e Poesia di Gibellina” con un brano, unico in lingua siciliana, di mia composizione dal titolo “Sintiti sintiti” con il quale ci aggiudicammo il secondo posto.

La partecipazione del gruppo “Vuci di Salina” al lavoro teatrale “La baronessa di Carini”, commedia musicale di Tony Cucchiara, portato in scena insieme alla Compagnia “Teatro e vita” di Giovanni Malato ci permise di sperimentare un tipo di spettacolo che comprendesse musica, balli e recitazione, con tempi teatrali ben definiti e precisi. Oltre alla soddisfazione per il gradimento che il pubblico mostrava alla fine dello spettacolo, ricordo la “bella” fatica e l’impegno che tutti mettevano durante le prove serali, magari dopo avere affrontato le fatiche del proprio lavoro e dei propri impegni familiari. Ho definito questa fatica “bella” non a caso, ma solo perché dopo, quando il tempo è passato e ci ripensi, ti accorgi che ne è valsa la pena e che quella fatica ha riempito uno spazio vuoto, creando un ricordo indelebile. Federico Fellini diceva che le esperienze dove hai imparato, scoperto o capito, sono i momenti in cui la vita batte davvero più forte

Tornando alla “Baronessa di Carini” – che fra l’altro, manco a dirlo era impersonata da mia moglie Giacometta – ognuno dei componenti del gruppo, chi più chi meno, aveva un ruolo o un personaggio da interpretare che sono certo, nei nostri ricordi ancora oggi fa compagnia ad ognuno di noi. L’anno successivo alla Barunissa, anche questo spettacolo portato avanti insieme all’Associazione “Teatro e Vita”, mettemmo in scena la commedia dialettale “Il cuore non invecchia”, dopodiché, per una serie di motivi il gruppo si sciolse.

È strano, ma ancora oggi a distanza di oltre un ventennio, quando incontro qualcuno dei componenti di “Vuci di Salina” immancabilmente ci si ritrova a raccontare alcuni degli episodi più o meno esaltanti di quei giorni e il commento che più frequentemente mi viene rivolto è: “Ma quanto tempo è passato!”. A pensarci bene però quel tempo non è mai passato, ma si è solo trasformato in un ricordo. Non provo per i ricordi un sentimento nostalgico, la nostalgia è un sentimento triste, a volte è ingannevole, perché inconsciamente isola nella nostra mente i momenti più belli fatti di successi e gioie del passato, scartando quelli meno felici e sgradevoli, comprese le fatiche “belle” e le delusioni affrontate per raggiungere quegli stessi obiettivi. Penso invece che sia giusto far uso dei ricordi, con spirito nuovo e costruttivo, per riprogettare il nostro presente. Ritengo che questo sia ancora più valido in un territorio “nuovo” come Misiliscemi, dove oggi c’è una comunità che si è data un’autonomia e che ha voglia e fame di progettare “futuro”, perché è questo il terreno più fertile dove coltivare e far nascere i prossimi “ricordi” per le generazioni che verranno.

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