“Lo sai che più si invecchia più affiorano ricordi lontanissimi, come se fosse ieri”.

Così cantava Franco Battiato nel 1989 nel brano Mesopotamia. È proprio vero, mi rendo conto che di mio padre ho ricordi lontanissimi ma così vividi che li posso quasi toccare con le mani. Erano sicuramente i primi anni ’60 ed io avevo ancora pochi anni. Di quel tempo conservo l’immagine di mia madre che gli apre la porta e lui che entra in casa con in mano una chitarra e un amplificatore, indossando una bellissima giacca blu di lamé coi revers sciallati. Solo qualche anno dopo presi consapevolezza che si trattava di strumenti e abbigliamento (divisa) da “musicanti“, così si definivano, oppure semplicemente “sunatura”. Questa situazione mi affascinava moltissimo, ma ancora di più mi affascinava la vecchia borsa in pelle, una specie di cartella, che mio padre portava sempre con sé. Ora che ci penso credo proprio che fosse la stessa che qualche tempo dopo usai io nei primi anni della scuola elementare.

Dopo aver riposto la chitarra nel suo fodero e accantonato l’amplificatore, mio padre era solito sedersi e aprire quella cartella – ricordo ancora il click delle chiusure in metallo cromato – e, ancor prima che si svelasse il suo contenuto, già iniziava a spandersi nella stanza un intenso e inconfondibile profumo, come di cibo della domenica. Si trattava di “timbalette”, ovvero timballi di pasta – bucatini o spaghetti – con il ragù, impanati e fritti. In quella cartella, oltre agli spartiti musicali, un diapason ed altre cianfrusaglie, non mancava mai una fetta di torta, la cosiddetta “cassata dî ziti” ovvero la torta degli sposi, i confetti e, ahimè, la fatidica bomboniera. La bomboniera non si poteva mai rifiutare, sarebbe stato un grave affronto e un’offesa per i genitori degli sposi ai quali, alla consegna del prezioso omaggio, cortesemente si rispondeva “È bellissima! Grazie!”.

Di quei giorni il mio naso ricorda gli odori, la mia bocca i sapori e i miei occhi l’immagine di mio padre che appariva a me come un eroe. In fondo, pensandoci bene non conoscevo nessun altro che avesse una giacca di lamé così bella e luccicante e di tutto ciò non mi sono mai chiesto il perché, era così e basta. Solo qualche anno dopo capii che mio padre da giovane aveva suonato il violino e che adesso invece, coi tempi “moderni”, dopo aver riposto quel nobile strumento nell’armadio, suonava la chitarra elettrica in un gruppo musicale, anzi in un “complesso” come si chiamavano allora, con il quale animava le feste di matrimonio e le serate danzanti di Carnevale. Ecco da dove arrivavano “timbalette”, cassate e bomboniere!  All’epoca del violino si suonava in “acustico”, cioè senza amplificare il suono e mio padre diceva spesso, facendo un paragone con il passato: “Ai tempi me’ si suonava a carvuni, comu veni veni. Si sunava a ‘parti di casa’, mentri ora ci su’ ‘i sali da ballu”. Le sale che più gli sentivo nominare erano a Trapani la “Sala Mazara”, il “Giardino Eden” e a Misiliscemi dallo zu Ciccio D’Antoni a Palma o al cinema di Marausa per Carnevale. Dei “complessi” di cui mio padre fece parte ricordo “I Satelliti” e gli “Ideal”, di questi ho memoria dei nomi di alcuni dei componenti. Oltre mio padre Franceschino alla chitarra, c’erano u zu Peppe Ferrante alla batteria, u zu Cicciu D’angelo alla fisarmonica, u zu Turiddu Fonte al sax e altri di cui non ho più un chiaro ricordo.

La mia famiglia era di frequente presente alle feste di matrimonio dove suonava mio padre, poiché gli sposi che “impegnavano il complesso” spesso erano parenti, amici, “vicinato” o semplici conoscenti. Praticamente ad una festa di matrimonio partecipava quasi la metà della comunità della propria contrada. In quelle occasioni salivo spesso sul palco dei suonatori, da lì potevo osservare i miei coetanei da un punto di vista diverso, accessibile solo a me, ma la cosa che più mi stupiva era il fatto che su quel palco, fra i “sunatura” c’era un clima di complicità e spensierato divertimento. Pensavo che suonare insieme ad altri richiedesse una maggiore concentrazione e disciplina, quindi associavo la loro disinvoltura al fatto che fossero davvero bravi. Il loro era il migliore complesso del mondo e di questo ero certo, con l’ingenuità di un ragazzino, spesso mi vantavo.

Senza pudore e con poca modestia raccontavo ai miei compagni di gioco che mio padre, oltre a essere un bravo “sunaturi”, era anche un attore. Una volta, ai loro commenti sarcastici fui costretto – con un pizzico di piacere personale – a prendere una foto che mostrava mio padre in costume teatrale, dove interpretava il Capitano di Castiglia in una rivisitazione dall’omonimo film con Tyrone Power (il papà di Romina). Purtroppo di queste “performance” non ho memoria diretta, ma solo il ricordo dei racconti che si facevano in famiglia, soprattutto degli aneddoti più comici e imbarazzanti che potevano capitare su quei palchi di contrada, dove mi piace pensare, si rappresentava una comicità in “purezza” che era solo la voglia di vivere e di stare insieme alla propria comunità, dopo gli anni della fame e della miseria della guerra.

I ricordi sono sempre legati al tempo trascorso, agli anni, ai mesi, ai giorni o anche al singolo momento, ma il tempo scorre sempre più veloce, rotola come una palla su un piano inclinato aumentando costantemente la sua corsa. Ecco che allora, velocemente i tempi cambiarono sotto in nostri occhi, arrivarono gli anni del cosiddetto boom economico e mio padre – credo anche per via degli impegni di lavoro nella sua falegnameria – abbandonò la sua attività musicale, anzi, visto che parliamo di falegnameria, potremmo dire più propriamente che appese la chitarra al chiodo. Infatti, la bella Meazzi Hollywood finì nell’armadio grande, in un angolo, insieme alla giacca di lamé e al violino che stava lì già da un po’. Mi capitava spesso di andare in camera da letto dei miei genitori e aprire l’anta dell’armadio, prendere la chitarra e seduto sulla poltrona del salotto suonare battendo con il plettro sulle corde che, ovviamente, emettevano sempre lo stesso suono un po’ fastidioso se ci penso, ma che nella mia mente prendeva la forma di melodie con un senso compiuto.

Mi piacerebbe suonare veramente pensavo, ma dopo quei primi approcci con lo strumento capii che forse era troppo difficile per me. Allora chiesi a mio padre: “Papà mi insegni a suonare?”, “Certo! Però prima, dovrai imparare il solfeggio e a leggere la musica” mi rispose. E che ci vuole! – pensai – Se ho imparato a leggere, scrivere e perfino a disegnare certamente sarò in grado di imparare anche a leggere la musica. Mai giudizio fu così affrettato e superficiale, furono settimane eterne e noiosissime di DO RE MI FA SOL LA SI  e poi terzine, crome, semibiscrome e altre diavolerie simili. Troppa roba per me, senza contare poi alle rinunce, come il gioco e gli amici. Fu così, che con grande delusione di mio padre – e anche mia – miseramente, presto mi arresi. A pensarci bene, è vero che il tempo passa sempre più velocemente, ma è anche vero che nell’età dell’adolescenza non ce ne accorgiamo, anzi, spesso vorremmo che passasse ancora più celermente, arsi dal desiderio di diventare adulti.

Ed ecco che dopo un “interminabile tempo” mi ritrovai alle superiori e il destino volle che nella mia classe ci fosse un compagno che – a suo dire – “sapeva suonare” e che conosceva le canzoni dei cantautori più in voga in quel periodo degli anni Settanta. Lo invidiai molto per questo, ma soprattutto perché seppi che aveva imparato a suonare senza studiare la musica e il solfeggio. Niente DO RE MI FA SOL LA SI, niente terzine, crome e semibiscrome, gli bastava conoscere gli accordi e avere un po’ di orecchio. Questa via mi sembrò nettamente più facile e visto che mio padre mi ripeteva spesso che ero dotato di un buon orecchio musicale, ritenni che un pezzo di strada lo avessi già fatto.

Così, con il mio primo “giro di DO” imparai a suonare, ad orecchio appunto e come mio padre anch’io formai “complessi” e suonai a feste e matrimoni per circa un decennio, facendo le prime esperienze proprio insieme a lui, mettendo su gruppi improvvisati di volta in volta. La sua presenza mi dava sicurezza e mi aiutava a vincere la timidezza e l’emozione. Il tempo – ancora lui – non solo passa in fretta, ma è anche crudele, non dà rimedio, non torna mai indietro. Mio padre se ne andò così, una mattina, dopo aver trascorso la sera suonando insieme, nella nostra casa di Salinagrande. Quell’ultima sera il complesso era formato da Franceschino (papà) al violino, Enzo (io) alla chitarra, Giacometta (oggi mia moglie) al sax contralto. Il tempo l’ho già detto passa veloce e non torna mai indietro e nella sua corsa, spesso, trascina con sé i ricordi e le emozioni di una vita, perché in fondo lo sappiamo, è più facile dimenticare un dolore che ricordare i momenti più belli.

Mio padre non c’è più da tanto tempo ormai, ma le emozioni e i bei ricordi sono ancora qui, fra le cose che ha fatto o toccato con le sue mani, dove ha suonato, dove ha scherzato e dove abbiamo riso insieme, perché quelli sono i luoghi dove abita la sua anima e dove noi lo incontriamo. Che strano però, se ci penso, ora che siamo adulti siamo diventati, chi più chi meno, tutti quanti “sunatura”: io, Giacometta, Alberto e Giuseppe i miei fratelli e soprattutto Francesco, mio figlio. Lui che porta il suo nome, non ha mai conosciuto il nonno, se non attraverso i nostri racconti. Forse sarò un illuso e alla fine il tempo avrà ragione di noi e velocemente passerà per sempre, ma sono fermamente convinto che noi possiamo fermalo, se solo usiamo ciò che la natura ci ha regalato: la capacità di nutrire e condividere i ricordi più belli.

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