Era l’estate del 1999 quando due appassionati subacquei immersi nelle acque antistanti la costa del lido di Marausa scoprirono il relitto di una bellissima nave oneraria tardo-romana. Situata ad appena 70 metri dalla terraferma e a soli 2,50 metri di profondità, questa fu in seguito recuperata e dopo un minuzioso e attento restauro, eseguito dal laboratorio Legni e segni della memoria di Salerno, venne esposta a partire dall’aprile del 2019 presso il Museo Archeologico Regionale Baglio Anselmi di Marsala, luogo in cui si trovava già la Nave Punica. Il lungo lavoro di recupero avvenne sotto la guida del professor Sebastiano Tusa, a quel tempo responsabile della Sezione archeologica della Soprintendenza di Trapani. Tusa, come molti ricorderanno, morì tragicamente in un incidente aereo in Libia nel marzo del 2019, a celebrare la memoria del suo grande impegno per la Nave di Marausa c’è una targa a lui dedicata e collocata proprio all’ingresso della sala espositiva. 

L’eccezionale scoperta del relitto venne resa possibile in modo paradossale grazie alla presenza di quello che era un molo abusivo, che arrivando in prossimità del punto dove la nave era posizionata aveva mutato le correnti, portandole pian piano a scavare lo strato di fango che ricopriva l’imbarcazione. Dalle prime indagini effettuate si capì che la nave si era inabissata a causa dei bassi fondali, forse un’errata manovra la portò ad imbarcare acqua e successivamente affondare. Lo scafo riportava delle riparazioni – forse effettuate poco prima del suo ultimo viaggio – che fecero ipotizzare come probabile zona interessata dall’incidente, proprio il punto in cui queste erano collocate. Una prima campagna di scavo venne eseguita nell’ottobre del 2000, una seconda che mirava al recupero dello scafo e del carico della nave con successiva operazione conservativa, venne realizzata nell’estate del 2009. Infine, la terza ed ultima operazione di recupero avvenne nell’estate del 2011

Basandosi sul carico che la nave trasportava si datò l’imbarcazione al III-IV secolo d.C. e dalle analisi effettuate si scoprì che fu costruita utilizzando varie tipologie lignee tra cui larice, cedro, frassino, faggio e pino (con un unico tronco di quest’ultimo, lungo oltre 10 metri, è realizzata la chiglia). Lo scafo ligneo a fondo piatto doveva originariamente essere lungo circa 20/25 metri – come racconta in un’interessante intervista fruibile sul web l’Ing. Gaetano Lino che prese parte al recupero – e la tecnica impiegata per la costruzione fu quella maggiormente diffusa nell’antichità, detta “a guscio portante”. I resti lignei della nave, che consistono in 700 pezzi, vennero recuperati in ottimo stato di conservazione grazie al fatto che la posidonia, unita all’argilla aveva ricoperto gran parte del sito, creando nel tempo uno spesso strato privo di ossigeno e di luce che nel corso dei secoli ha sigillato il relitto. Questa tipologia di imbarcazione era destinata alla navigazione su bassi fondali, come quelli di fiumi o lagune e proprio la zona del lido di Marausa tra il III e il IV secolo d.C. doveva essere una grande distesa lagunare nei cui pressi passava la Via Valeria, l’antica via consolare romana che collegava Messina a Marsala. 

Grazie alla posizione strategica e di facile approdo, si ritenne che la costa di quella che è oggi Marausa Lido fosse parte integrante di un percorso marittimo di scambi commerciali fra l’antica Drepanum (Trapani), Lilybaeum (Marsala), l’Arcipelago delle Egadi e l’Africa. La presenza del fiume Birgi, del torrente Misiliscemi e del canale Baiata agevolava poi la comunicazione con le zone interne. Tusa ipotizzò che la foce del fiume Birgi nel periodo romano fosse un “emporium”, cioè un porto fluviale dove venivano scaricate le merci che arrivavano dall’Africa. Dunque si trattava di punto di raccolta in vista del successivo trasferimento presso le città a cui erano destinate. 

La Nave di Marausa era sicuramente partita dall’antica Byzacena, l’odierna Tunisia e trasportava un carico di anfore (per l’80% di produzione africana) contenenti prodotti agricoli tra cui granaglie, olive, fichi, pesche e frutta secca come pinoli, mandorle e nocciole. Ma anche pesci di vario genere, essiccati o sotto sale, “garum” (salsa di pesce) e vino. Dai frammenti ossei ritrovati si è potuto risalire al fatto che il carico fosse composto anche di carne di bue e maiale che viaggiava macellata o essiccata e di animali trasportati vivi come pecore, capre, galli e galline che dovevano servire, oltre che per scopi commerciali, anche a ricavare latte e carne fresca per sfamare l’equipaggio durante la traversata.

Si ipotizzò che l’imbarcazione fosse diretta all’imbocco di quello che era al tempo l’estuario navigabile del fiume Birgi e che la destinazione fosse una villa rustica individuata a qualche centinaio di metri dalla costa. Grazie alla vicinanza con la terraferma, probabilmente l’equipaggio si salvò insieme alla maggior parte del carico con cui viaggiava. Il fatto che l’albero della nave non fu rinvenuto durante lo scavo fa pensare che, come spesso succedeva in antichità, anche questo venne recuperato per essere successivamente riutilizzato.

Dagli scavi eseguiti sono riemersi anche tegami, vasi da cucina, pentole e altri oggetti necessari per la preparazione e il consumo dei pasti, oltre a lucerne, vasellame in vetro e una moneta. Inoltre, il ritrovamento di alcuni ami e un peso in piombo lascia pensare che i marinai, liberi da operazioni legate alla navigazione, dedicassero il loro tempo alla pesca. Anche i momenti di svago non mancavano e sono testimoniati dal rinvenimento di alcuni astragali, piccoli ossicini a forma di cubo usati come i dadi e alle cui facce si attribuiva un valore.

La scelta espositiva pensata per la Nave di Marausa segue due diversi criteri, entrando nella sala dedicata i visitatori trovano alla propria sinistra una parte dell’imbarcazione disposta in orizzontale, in modo da essere mostrata così com’è stata rinvenuta sul fondale e alla propria destra una parte ricostruita seguendo l’ipotesi di come essa probabilmente doveva apparire in navigazione.        

Qualche anno fa una seconda nave oneraria romana è stata individuata nella stessa zona del ritrovamento della prima, dalle indagini eseguite sui reperti del carico si è accertato che risalirebbe alla tarda età imperiale. Prossimamente anche di questa imbarcazione verrà eseguito il recupero ed insieme a quella attualmente esposta costituirà un patrimonio storico di rilevante importanza per Misiliscemi, ragion per cui si ipotizza che in futuro verrà di certo realizzato sul territorio un apposito spazio espositivo in grado di accoglierle entrambe. L’area di Marausa Lido è da ritenersi di notevole interesse per ciò che concerne la navigazione nel Mediterraneo antico, dunque oggetto di studi ed ulteriori ricerche che porteranno alla luce chissà quali altri tesori archeologici. Per un territorio in pieno sviluppo quale è oggi il nuovo Comune di Misiliscemi, immaginare un museo che possa ospitare queste meraviglie provenienti dal mare è di fondamentale importanza per attrarre visitatori e turisti. Ma questi eccezionali ritrovamenti sono anche uno stimolo culturale per chi oggi vi abita e porta con sé il desiderio di conoscere la storia di questi luoghi, fatta di eventi e popoli che nel corso dei secoli li hanno costituiti.

LA NAVE DI MARAUSA

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