Lucia Maltese
Dottore in Scienze e Tecnologie Agrarie

© Lydia Byam, CC BY-SA 4.0
via Wikimedia Commons

Nelle campagne di Misiliscemi lo sguardo si perde fra le varie tipologie di colture, il territorio diversificato presenta infiniti profumi e altrettante tonalità di colori. All’interno di questo magnifico scenario è impossibile non ritrovare il fico d’india – utilizzato spesso per segnare i confini tra le varie proprietà – che con le sue pale, fa da cornice selvaggia a questo belvedere siciliano.

L’Opuntia ficus-indica, questo il nome scientifico del fico d’india, è una Cactaceae originaria del Messico molto diffusa nelle zone del Mediterraneo. È una pianta legnosa che non necessita di particolari cure e che cresce anche sui terreni più ostili, essa presenta dei particolari organi chiamati cladodi (pale) adattati a funzionare, nelle zone più aride in cui scarseggiano le piogge come in Sicilia, da riserve d’acqua. Il frutto è un acrosarco, ovoide lungo 5-9 cm, di colore giallo, arancio o porpora, spinoso e con numerosi semi racchiusi nella polpa carnosa.

In Sicilia il fico d’India cresce spontaneamente fornendo frutti di alta qualità molto apprezzati e l’isola, dopo il Messico, è tra i maggiori produttori mondiali del frutto. Quattro sono le varietà: la gialla, detta sulfarina, la rossa, nota come sanguigna, la bianca, denominata muscarella e quella tipicamente arancione, chiamata moscateddo. Sull’isola vengono coltivate in aree ben distinte: nella zona centro-orientale che fa capo al paese di San Cono, nel sud-ovest etneo nei territori di Belpasso, Militello, Paternò, Adrano e Biancavilla e nel Belice, la zona sud-occidentale, nei comuni di Menfi, Montevago, e soprattutto Santa Margherita Belice.

La fioritura della pianta inizia in primavera, mentre i frutti crescono dal periodo estivo, quelli più pregiati sono i fichi d’India tardivi, che arrivano sulle nostre tavole in autunno. Questi frutti, vengono chiamati “bastarduna” o “scuzzulati” e non sono altro che i fichi d’India nati dalla seconda fioritura che si ottiene eliminando dalle piante i primi frutti – più piccoli – e costringendo così la piantina a rifiorire. I “bastarduna” sono meno numerosi, ma hanno un valore di mercato più alto, perché sono tardivi e anche perché sono più grandi e senza semi.

Secondo una leggenda, il fico d’India scozzolato nasce da una lite tra due contadini confinanti: volendo danneggiare il vicino di terra, il primo dei due – il “bastarduni” – tagliò i fiori sulle piante del rivale, convinto di aver rovinato la sua raccolta per tutta la stagione. Con le prime piogge, però, cominciarono a crescere dei frutti ancora più grossi e succosi e la fruttificazione fu solo ritardata e portò un maggiore guadagno alla concorrenza.

Ad essere commestibile non è soltanto il frutto prodotto dal fico d’India, ma anche la pala stessa, consumabile sia cotta che cruda dopo essere stata adeguatamente lavata, despinata e sbucciata. Il periodo ideale per la raccolta delle pale è compreso fra la primavera e l’estate, quando la pianta fa crescere quelle più nuove e giovani. In alcune zone della Sicilia vengono addirittura panate e fritte, oppure spolverate con zucchero impalpabile per essere servite come dessert. E ancora, possono essere usate nella pasta fresca, dove le foglie disidratate vengono macinate e addizionate all’impasto di farina e uova.

In Sicilia, nel corso dei secoli, la pianta di fico d’India insieme ad altre, si è imposta come simbolo dell’isola e ne colora gli scenari con le sue immancabili pale ed i suoi frutti, che sono perfettamente a loro agio nel clima mediterraneo. 

Si racconta che il fico d’India giunse in Europa nella seconda metà del Cinquecento grazie agli spagnoli e che sia stato Cristoforo Colombo – di ritorno dalle Americhe – a portare i frutti nel continente, essiccati al sole, come era usanza delle popolazioni indigene del periodo. Ancora prima probabilmente, furono i Saraceni ad introdurre questo tipo di coltivazione in Sicilia intorno all’anno 827, o successivamente gli arabi dopo la loro cacciata dalla Penisola Iberica. Infatti, la facilità dei rapporti politici e commerciali che legavano in quel periodo la Spagna alle zone mediterranee, permise all’Africa e alla Sicilia di essere le prime regioni nelle quali arrivò questa nuova specie, territori in cui la pianta trovò un ambiente favorevole alla sua espansione.

Il fico d’India fu importato inizialmente come pianta ornamentale per i suoi i fiori colorati, Giuseppe Pitrè etnologo italiano ed importante studioso e ricercatore delle tradizioni popolari siciliane, racconta che in principio l’aspetto spinoso e bizzarro destava non poca diffidenza tra contadini e pastori dell’isola, si pensava, infatti, che “lu peri di ficurinia” fosse una pianta velenosa, portata dai Turchi “senza fede” in Sicilia per distruggere la popolazione. Il buon Dio cristiano, che tanto amava quella terra e chi la viveva, rese i frutti dolcissimi e donò loro proprietà miracolose. 

Da allora, per devozione, nei giorni di vendemmia i contadini mangiano tantissimi di questi frutti la mattina come prima colazione. In verità, questa usanza trae origine dall’antica abitudine del “padrone” di far lavorare i vendemmiatori a stomaco pieno, cosicché durante la raccolta avrebbero mangiato poca uva. Da qui anche un famoso detto siciliano “Inchi la panza e inchila di spini” (riempi la pancia e riempila di spine).

In merito alle sue proprietà curative, la medicina popolare siciliana vede il fico d’India (soprattutto le sue pale) come una pianta quasi miracolosa: i cladodi crudi, interi, al forno o in poltiglia, erano regolarmente usati per curare contusioni, ecchimosi, infiammazioni e persino come rimedio contro la febbre da malaria. Inoltre, prelevando dal cuore della pala il gel verdognolo e trasparente contenuto al suo interno e aggiungendo a questo alcuni pezzetti delle pale giovani, è possibile ottenere dei frullati ricchi di sostanze benefiche e vitamine, in grado di stimolare il sistema immunitario. Il ß-carotene, che il nostro corpo trasforma in Vitamina A e i flavonoidi che aiutano a proteggere la pelle, i polmoni e l’intestino; le vitamine del complesso B, come tiamina, riboflavina, niacina, vitamina B6 e acido pantotenico sono invece essenziali per sostenere il metabolismo cellulare e la produzione di enzimi nel nostro corpo.

Il gel estratto dalle pale del fico d’India viene inoltre utilizzato dalle industrie erboristiche, in quanto presenta alcune fibre – in particolare polisaccaridi come pectine, mucillagini ed emicellulose – che assunte prima dei pasti possono aiutare a ridurre l’appetito, creando un senso di sazietà, favorire il transito intestinale e limitare l’assorbimento di grassi e zuccheri, abbassando i livelli di colesterolo (LDL) e di zuccheri nel sangue.

Con le nuove tecnologie sono stati scoperti tantissimi nuovi utilizzi di questa pianta nell’economia circolare, come la possibilità di creare una plastica biodegradabile dalle cladodi, da cui già si estrae la mucillagine per realizzare una particolare pellicola. 

“LA FICURINNIA“ di Salvatore Corrao

Crisci ‘nta la Sicilia, Amata e cara,
un fruttu ch’avi ‘na ducizza rara,
ma l’ha tuccari cu’ pricauzioni
picchì spini nn’havi a milioni.

Me figghiu m’addumanna: “Ma picchì
La natura è fatta d’accussi?
Un fruttu tantu bonu di mangiari
È chinu ‘i spini ca nun si po’ tuccari”.

La ficurinnia, ci rispunnivi iu,
la fici d’accussì Domini Diu,
pi ‘nsignari a tutta la so genti
ca i cosi belli nun su’ fatica ‘i nenti.

‘U fattu, poi, ca scelsi la Sicilia
lu fici di prupositu, pi mia,
picchì ‘stu fruttu è l’unicu, fra tanti,
ca po’ rapprisintari ‘st’abitanti.

E’ fattu comu ‘a genti siciliana,
ca all’apparenza pari assai luntana,
ma s’arrinesci a junciri ‘o so’ cori
lu vidi quantu amuri sapi dari.