Cristina Martinico

LE EDICOLE VOTIVE, LE CAPPELLE DEI BAGLI E LE CHIESE DEDICATE A SAN GIUSEPPE

La grande devozione nei confronti di San Giuseppe a Misiliscemi è testimoniata dalle tante edicole votive, le “fiuredde” che incontriamo percorrendo le vie delle contrade e dentro alle quali facilmente troviamo immagini o statuette del santo e della Sacra Famiglia. Le “fiuredde”, segno della fede del passato, venivano poste sul muro esterno della propria abitazione o realizzate con il contributo delle comunità delle contrade ed erette lungo il margine della strada. Gesto di devozione verso il santo, a protezione della casa o come ringraziamento al Patriarca per un beneficio ricevuto, diverse sono infatti le storie che apprendiamo e che ci parlano della vita, della fede di chi le ha realizzate e della motivazione che ha spinto alla costruzione di quella specifica edicola votiva.

Anche all’interno delle proprietà dei tanti bagli sparsi per il territorio veniva molto spesso edificata una cappella, ad uso dei ricchi proprietari, ma anche a beneficio dei braccianti, dei contadini e delle loro famiglie che lì attorno vivevano e lavoravano. Dai documenti relativi alle chiese rurali conservati presso l’Archivio Storico della Diocesi di Trapani che sono stati consultati per questa ricerca dedicata a San Giuseppe, apprendiamo ad esempio di una richiesta del 1799 per edificare una chiesa intitolata al santo nella contrada di Pietretagliate, o di un’altra del 1819 per costruire una chiesa dedicata a Gesù, Maria e Giuseppe a Fontanasalsa (molto spesso la devozione a San Giuseppe era associata a quella per la Sacra Famiglia). 

A Misiliscemi troviamo tre chiese che portano il nome del santo e sono tutte ubicate in contrade confinanti fra loro: Salinagrande, Pietretagliate e Palma. Dalla ricerca fatta, possiamo ricostruire brevemente la loro storia ed apprendere che fino all’erezione a parrocchie – tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta – le chiese erano tutte rettorie della chiesa Maria SS. Immacolata di Nubia. Infatti, su diversi documenti troviamo il nome della chiesa seguito dalla dicitura “di Paceco”, dunque ricadevano all’interno di quel territorio comunale. Per decenni fu il sacerdote Calogero Sardo ad occuparsi di celebrare la messa, impartire i sacramenti e gestire l’amministrazione, in tanti lo ricordano ancora e qualche anziana ha viva l’immagine del parroco che arriva la domenica a bordo di una motocicletta.  

CHIESA SAN GIUSEPPE  – SALINAGRANDE

Le prime notizie storiche relative alla chiesa San Giuseppe di Salinagrande attualmente ritrovate risalgono a metà Ottocento e le apprendiamo da una corrispondenza iniziata nel 1855 e andata avanti un decennio, avvenuta tra l’allora sindaco di Trapani e il vescovo che ci parla di una vertenza relativa all’utilizzo di alcuni locali della chiesa per l’istituzione di una scuola rurale. In seguito, un atto notarile del 1859 ci parla di un legato di messe dal testamento di Caterina Barbara, vedova di Antonino Valenti “domiciliata a Trapani ma dimorante nella campagna di Salina Grande”. Il documento parla dell’obbligo lasciato ai figli di far celebrare durante la loro vita tre messe ogni anno “dentro la venerabile Chiesa sotto titolo di San Giuseppe esistente in detta campagna della Salina Grande”. Dunque, una parte della chiesa doveva già essere edificata a quel tempo, vista l’adiacenza all’antica salina potrebbe essere stata in origine una cappella dei salinai ampliata poi nel corso della storia. 

Una relazione del settembre 1952 redatta dal parroco rettore riporta: “La chiesa di Salina Grande è stata edificata nel 1905 con denaro offerto dalla popolazione. Ha due altari, è insufficiente ai bisogni della popolazione. Riguardo alle riparazioni si provvede con denaro offerto dai fedeli. Non è assicurata. Non ha impianto elettrico. […] La casa canonica, comprendente 7 piccoli vani è annessa alla chiesa; non possiede locali per Azione Cattolica, né case urbane, né fondi rustici”. Il documento continua con l’elenco dei beni mobili tra cui un calice, un ostensorio, una teca per esposizione del Santissimo e una coppa per battesimi. E ancora riporta i paramenti sacri e i libri liturgici, oltre a svariati oggetti tra cui due crocifissi, una statua e uno stendardo di San Giuseppe, un harmonium ed ex voto rilevati in 7 anelli e 11 orecchini. 

Sempre nel 1952 viene acquistato un lotto di terreno adiacente da destinare all’ampliamento dell’asilo infantile che, insieme alla scuola elementare, il Comune di Trapani aveva lì collocato prendendo i locali in affitto già dal 1945. Affitto mantenuto fino all’aprile del 1956, quando il contratto fu disdetto in seguito al trasferimento delle classi presso il nuovo edificio scolastico comunale costruito a Salinagrande. Nel 1962 la chiesa viene eretta a Parrocchia e ne vengono così definiti i confini territoriali. Nel corso del tempo si sono succeduti diversi interventi di restauro, fra cui uno molto corposo negli anni Ottanta che ne ha modificato l’interno di cui tanti ricordano fattezze. Tanti particolari di un tempo, da quel momento in poi scomparvero e oggi troviamo opere dello scultore Ennio Tesei, come il Crocifisso, il Cristo risorto e la via crucis. 

La leggenda della Statua di San Giuseppe che tornava dalla nuova chiesa alla sua “fiuredda”
e dei due giovani salinai a cui il santo diede una lezione

La tradizione orale diffusa nell’antico passato a Salinagrande, ha trasmesso a quelli che sono gli ottantenni di oggi una storia che ha ovviamente del leggendario, seppur chi la racconta dica di averla ascoltata dalla voce di alcuni dei propri familiari – coinvolti da vicino nell’accaduto – e che per questa ragione debba “per forza” essere vera. Si dice che all’inizio del Novecento, la statua di San Giuseppe – probabilmente non l’attuale, ma un’altra scultura perché si fa riferimento ad una di dimensioni più piccole – fosse collocata all’interno di una piccola cappella o “fiuredda” posta fra quelle che erano un tempo le case dei salinai (oggi diroccate) e il pozzo arabo, a due passi dall’odierna chiesa. I lavoratori della salina insieme ad altri abitanti della contrada decisero che il santo dovesse avere una casa più dignitosa e così presero l’iniziativa di costruire l’attuale chiesa, che come precedentemente detto fu edificata nel 1905. Terminati i lavori arrivò il giorno in cui vi trasferirono la statua, ma il giorno dopo la collocazione i salinai si recarono nuovamente in chiesa e la statua era sparita, dunque pensarono che qualcuno l’avesse rimossa o rubata e allarmati si misero alla ricerca, trovandola immediatamente nello stesso identico posto dove era stata per tanto tempo: all’interno della sua originaria cappella. Allora la presero e la riportarono in chiesa, pensando che sicuramente qualcuno aveva voluto fare loro uno scherzo o un torto spostandola, il giorno seguente però si ripeté la stesso. Perciò i fedeli, allarmati e risoluti nel voler cogliere sul fatto i “delinquenti” che avevano compiuto questo atto, la riportarono all’interno della chiesa, chiusero a chiave il portone e circondando l’edificio passando tutta la notte vegliando l’esterno.

Al mattino, riaprendo il portone si accorsero che San Giuseppe era di nuovo “tornato” nella cappellina, allora davanti all’evidenza, stupefatti dell’evento e assolutamente increduli, appurarono che doveva per forza essere stato il santo stesso a “fuggire“. Così due giovani salinai, tra i più attivi sostenitori della costruzione della chiesa e devoti al santo, presero la statua con forza e la strattonarono dicendo: “Ma l’avi a diri iddu chi è chiù nicu di niatri unn’avi a stari? ‘Nchiesa è u so postu!“, per “nicu” intendevano riferirsi alle dimensioni della statua che doveva essere di dimensioni inferiori rispetto a quelle di un uomo, così facendo la portarono con forza in chiesa. Da qual momento San Giuseppe non si mosse più da lì, ma qualche giorno dopo accadde qualcosa di incomprensibile agli occhi di tutti: i due ragazzi una mattina si svegliarono tumefatti, impossibilitati a muoversi dal letto, riportando lividi sull’intero corpo, come fossero stati presi a botte. Così tutti pensarono che fosse stato San Giuseppe ad andare da loro di notte per prenderli a bastonate, offeso dai loro modi e dal fatto che i due volessero imporgli la loro volontà. Spaventati da questa spiegazione, i ragazzi si pentirono per aver usato quei modi, immediatamente i lividi e il dolore fisico sparirono e la loro devozione divenne più fervente che in passato. Certamente questa leggenda si discosta totalmente dalla figura di Giuseppe santo, uomo buono, protettore della famiglia e dei poveri, ma se consideriamo che nel periodo storico nel quale si diffuse la “spiegazione all’accaduto” era ancora il tempo mi cui si pensava alla figura di un Dio che punisce, allora questa storia fantasiosa è assolutamente comprensibile. La morale della favola era: nessuno si permetta di mancare di rispetto ai santi, perché questi certamente troveranno il modo per rimettervi al vostro posto. Per fortuna si tratta solo di una leggenda, anche se chi ce la racconta oggi è assolutamente certo del fatto che San Giuseppe si sia fatto valere!

CHIESA SAN GIUSEPPE – PIETRETAGLIATE

La chiesa San Giuseppe a Pietretagliate è stata fondata nel 1940 in seguito alla cessione a titolo gratuito di un lotto di terreno fatta nel 1937 da Antonino Barbara, borgese originario di Paceco ma da tantissimi anni residente nella contrada e membro molto attivo della comunità. Come riporta il documento notarile: “Il lotto suddetto per volontà del donante Antonino Barbara sarà destinato per la costruzione di una Chiesa che in quella località sarà eretta con l’obolo di quei fedeli e che sarà intitolata al nome del Patriarca S. Giuseppe”. E la costruzione, così come ricorda ancora qualche anziana del luogo, fu ad opera degli abitanti della contrada, che donarono oltre al denaro anche il proprio lavoro manuale, trasportando tufi, diversi materiali e partecipando all’esecuzione dei lavori spesso difficili da realizzare a causa della guerra. Nel decreto di erezione nel quale il vescovo Mons. Ferdinando Ricca consacra la chiesa a San Giuseppe, si dice dell’impossibilità per gli abitanti della frazione di recarsi presso altre chiese per partecipare alle funzioni domenicali e festive a causa della troppa distanza, dunque la necessità di avere un proprio luogo per il culto.

Da una relazione del 1952 redatta dal parroco Sardo che riporta la stessa data di quello sopracitata redatta per Salinagrande, apprendiamo che anche la chiesa di Pietretagliate era sprovvista di impianto elettrico, assicurazione, era insufficiente per i bisogni della popolazione e non possedeva locali extra rispetto a quelli della chiesa stessa. Ma era fornita di diversi beni mobili per lo svolgersi delle messe e amministrare i sacramenti, di libri liturgici, paramenti e oggetti vari, tra i quali un crocifisso, candelieri in rame, una croce astile, una bara, un ombrello per processione e una statua di San Giuseppe. E la storia della statua – i cui lineamenti dei volti di San Giuseppe e del Bambino ne fanno di certo la più bella fra tutte quelle raffiguranti il santo che troviamo nelle chiese di Misiliscemi – così come racconta un pronipote oggi, è legata al dono fatto da Vincenzo Scarlata nel 1947 per grazia ricevuta, in quanto dei sette figli partiti per la guerra, tutti tornarono a casa vivi.

Con l’erezione a parrocchia della chiesa successivamente edificata a Palma, la chiesa San Giuseppe di Pietretagliate ricade all’interno dei confini territoriali della nuova chiesa e nel 1957 ne diventa “filiare”. Tra il 1968 e i primi anni Settanta – grazie alla cessione di un lotto di terreno da parte di Giuseppe Barbara, figlio di Antonino – vengono edificati il salone ricreativo per figli di lavoratori e i locali annessi. In seguito, per un periodo che va tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, questi locali hanno ospitato un asilo; successivamente ad un restauro totale della chiesa avvenuto verso la fine degli anni Ottanta, sono stati sostituiti tutti gli arredi sacri interni tra cui un bellissimo altare ligneo dipinto, solo la struttura architettonica è rimasta invariata. Come purtroppo avveniva al tempo, era usuale disfarsi di tutti gli arredi e dei tanti oggetti antichi o elementi architettonici presenti sostituendoli con altri contemporanei. Una modalità che ha snaturato la storia di questi luoghi perché in passato, all’erezione delle nuove chiese rurali del territorio, il vescovo affidava a quella determinata comunità, beni e arredi sacri provenienti da altre antiche chiese di Trapani ed Erice. 

CHIESA SAN GIUSEPPE – PALMA

L’ultima chiesa edificata in ordine temporale è quella di San Giuseppe a Palma, eretta nel 1957 vede prima la costruzione della casa canonica ed in seguito nel 1958 della chiesa stessa. Dal progetto preliminare vediamo che l’attuale edificio non rispecchia del tutto la versione che è poi stata realizzata. Purtroppo non è stato al momento possibile consultare ulteriore documentazione che possa raccontarci la storia di questa chiesa nel tempo, anche se molti fedeli di Palma possono raccontarne l’evoluzione, avendo assistito personalmente a tutte le fasi della costruzione ed essere stati parte della creazione di quella comunità.

Anche questa chiesa, seppur storicamente la più recente, ha subito nel corso dei decenni interventi di restauro interni ed esterni che hanno aggiunto elementi decorativi differenti e che oggi la portano a mostrare caratteristiche molto diverse rispetto all’originale, che un tempo presentava un aspetto molto essenziale. Artisticamente interessanti e provenienti da altre antiche chiese sono il crocifisso ligneo del 1635 e il fonte battesimale in marmo grigio, che dai decori floreali può anch’esso essere collocato storicamente al XVII secolo.

LA PROCESSIONE DELLA STATUA DI SAN GIUSEPPE , LA VAMPATA  E I GIOCHI TRADIZIONALI

All’interno di ogni chiesa delle contrade di Misiliscemi troviamo una statua raffigurante San Giuseppe, andando indietro nella storia troviamo che in un inventario dei beni della Chiesa Maria SS. Immacolata di Marausa del 1933 si rilevava l’acquisto di una statua a nome di tutti i Giuseppe della contrada. E proprio a questa statua portata in processione nel 1938 si riferiscono le immagini più antiche reperite sul territorio, bellissimi scorci di un lontano passato che ci mostrano i fedeli attorniare la “vara” immersi nella campagna e nei pressi dell’antica chiesa

Dalle richieste per ottenere i permessi per le processioni, ritrovati fra i documenti conservati all’Archivio Storico Diocesano di Trapani scopriamo che queste, di rado avvenivano il 19 marzo. Molto spesso, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del secolo scorso, le richieste per lo svolgersi di una processione a Misiliscemi – ed in particolare a Salinagrande, Pietretagliate e Palma – si riferiscono ai mesi di aprile, maggio, agosto, settembre e ottobre, solo talvolta troviamo anche marzo. Per quanto riguarda maggio, la processione era certamente svolta in onore di San Giuseppe Lavoratore che si celebra il giorno 1, ma in molti ricordano che il santo “usciva” quando la cassa della chiesa disponeva delle somme necessarie per organizzare la festa e poter dunque pagare la banda e tutte le spese necessarie; il contributo dei burgisi in quel caso era fondamentale, perché il loro aiuto economico avrebbe permesso di realizzare qualcosa in più. Nel corso della storia la processione di San Giuseppe a Misiliscemi si è allineata alla data del 19 marzo o il giorno dopo se la giornata corrisponde con una domenica di quaresima. La tradizione è dunque rimasta viva sul territorio e vede ancora la partecipazione di tanti fedeli, con la differenza che adesso si svolge come unico evento che riunisce tutte le contrade, nello spirito di unità delle comunità; anche per questa ragione la statua portata in processione, è a rotazione una di quelle presenti all’interno delle tre chiese dedicate al santo

© Archivio Storico Diocesi di Trapani

Una tradizione molto antica legata alla festa di San Giuseppe era la “vampata”, un grande falò acceso la sera del 18 marzo attorno al quale le comunità si riunivano. Come ben sappiamo, il rito del fuoco è presente in molte culture come espressione di rigenerazione, purificazione e di abbandono del vecchio per passare al nuovo, in questo caso è anche legato all’idea di allontanare il freddo della stagione invernale per prepararsi alla primavera. Dunque un momento in cui invocare e auspicare prosperità e abbondanza del raccolto – così come abbiamo già raccontato parlando dell’antico “ammitu di San Giuseppe” – importantissimo per la quasi totalità degli abitanti che a Misiliscemi vivevano del lavoro dei campi. Come ci racconta Salvatore Giliberti ricordando diversi momenti della sua infanzia a Marausa: “Di giorno i ragazzi raccoglievano la legna di casa in casa chiedendo: ‘mi runa un mazzu di ligna pa vampata di San Giuseppe?’, un tempo anche quello era un bene prezioso per cucinare e scaldarsi. Poi in orario notturno ogni contrada vedeva vari gruppi di famiglie radunarsi davanti alle immagini votive, alle “fiuredde” o in altro luogo all’aperto e accendere il fuoco, ad esempio a Pietretagliate – detta anche San Giusippuzzo – la ‘vampata’ veniva organizzata proprio davanti al sagrato della chiesa, oppure a Marausa ci riunivamo davanti alla bellissima cappella di fine Ottocento che si trova sulla via Rinaldi, a pochi metri dalla chiesa dell’Immacolata. Appena la fiamma prendeva consistenza, qualcuno acclamava: ‘Viva u Patriarca San Giuseppe’ e tutti rispondevano ‘Viva!’, talvolta qualcuno sparava in aria con il fucile in segno di festa, i ragazzi si divertivano a saltare attraversando il fuoco nel momento in cui non era esageratamente alto. Durante questo momento di festa venivano innalzati canti tradizionali e finita la fiamma qualcuno raccoglieva un po’ della brace rimasta e la portava a casa per utilizzarla, anche se si diceva che la brace era del santo”. Oggi la “vampata” di San Giuseppe è ancora in uso e quando possibile ci si ritrova riuniti non più per contrade, ma tutti attorno allo stesso fuoco.

Spesso i festeggiamenti in onore di San Giuseppe a Misiliscemi si protraevano per più giorni ed erano caratterizzati, oltre che dai momenti dedicati alla spiritualità e alla fede, anche dai giochi all’aperto a cui partecipavano tanti ragazzi e giovani. Chi era bambino negli anni Cinquanta ha impresse nella memoria immagini del gioco dell’antenna, di quello dei “pignateddi”, della corsa con i sacchi o della corsa campestre. Questa tradizione si è tramandata ed è stata portata avanti per decenni e mai abbandonata, tanti di quei giochi sono tutt’ora organizzati nell’ambito dei festeggiamenti in un momento dedicato ai bambini. Oltre a questo, sono poi stati introdotti anche momenti dedicati alla musica e al teatro e in tempi più recenti a piccole conferenze ed eventi collaterali.

In un raro filmato del 1979 che mostra i festeggiamenti per San Giuseppe a Pietretagliate, vediamo alcuni momenti dei giochi tradizionali, della corsa campestre e del tiro alla fune. Anche se non distinguiamo nitidamente volti e particolari, ciò che ci arriva è certamente la grande partecipazione alla festa di una piccola comunità.

© Archivio C. Martinico

San Giuseppe nella scultura devozionale

Lina Novara

La rappresentazione di San Giuseppe, come figura isolata che tiene in braccio o per mano il Bambino Gesù, si afferma soprattutto nella scultura devozionale dei secoli XVIII e XIX ed in particolar modo dopo il 1870, anno in cui il pontefice Pio IX lo proclama patrono della Chiesa universale con il decreto Quem ad modum Deus.   

La presenza del padre di Gesù nella storia dell’arte non è preminente come quella materna di Maria e in pittura il Santo compare spesso assieme ad altri personaggi nelle scene dello Sposalizio, della Natività, della Fuga in Egitto, della Sacra Famiglia ed in altre ancora. Inizierà infatti a subentrare da solo con il Bambino quando si supererà, nel tempo, la concezione dell’affetto primario ed indissolubile tra madre e figlio.

È nel Libro d’Ore, un codice miniato francese, databile al 1452-1460, che per la prima volta appare, come simbolo della paternità, San Giuseppe che regge teneramente il Bambinello tra le sue braccia e istaura con Lui un’intesa di sguardi.

Nella seconda metà del Cinquecento un impulso devozionale verso il padre putativo del Figlio di Dio, venne dato dall’Ordine dei Carmelitani e dagli scritti di Santa Teresa d’Avila; in linea con i dettami controriformisti si ebbe di conseguenza una diffusione dell’immagine del Santo con il Bambino.

Sarà Guido Reni nel secolo XVII a produrre numerose opere pittoriche raffiguranti San Giuseppe con in braccio il Bambino sottolineando l’affetto tra padre e figlio; seguiranno la scia il Guercino Gherardo delle Notti, Gian BattistaGian Domenico Tiepolo e altri artisti.

Secondo un’iconografia tradizionale e diffusa San Giuseppe, solitamente, viene rappresentato in scultura con il Bambino Gesù in braccio, oppure nell’atto di condurlo per mano, mentre con l’altra regge un bastone fiorito

Nelle raffigurazioni sia pittoriche che scultoree il Santo è sempre provvisto di un bastone, attributo proprio del viandante, con riferimento al viaggio compiuto verso Betlemme e alla fuga in Egitto

Se il bastone ha la terminazione fiorita allude a quello rinsecchito che, secondo la tradizione apocrifa riportata dal protovangelo di Giacomo e, in seguito, anche nella “Legenda Aurea” di Jacopo da Varazze (sec. XIII), sarebbe miracolosamente fiorito per indicare quale sposo Dio avesse scelto per Maria. Giuseppe infatti, come altri pretendenti, ciascuno con in mano una verga, aveva richiesto a Dio di indicare con un segno chi dovesse sposare la Vergine: il bastone di Giuseppe germogliò e fiorì miracolosamente.

Nell’iconografia più comune dal bastone sbocciano gigli, simbolo della purezza di Maria, mentre nella iconografica sacra dei paesi ispanici il “bastone di San Giuseppe” è un ramo di nardo i cui fiori hanno la forma di spighe bianche o rosate. In Sicilia cresce una pianta spontanea, chiamata “bastone di San Giuseppe”, l’alcea rosea che nelle campagne del trapanese veniva usata per decorare il bastone del personaggio vivente che impersonava il Santo durante la cerimonia dell’“invito di San Giuseppe”.

Quando il Santo ha il Bambino in braccio, di solito lo trattiene con la mano sinistra: se è invece rappresentato come guida premurosa di Gesù, nell’atto di condurlo per mano, la sua figura è in posizione stante con un piede arretrato rispetto all’altro per sottolineare il senso dell’incedere e accentuare la dinamicità dell’episodio.

Nelle raffigurazioni più diffuse San Giuseppe veste una lunga tunica di colore azzurro, per sottolineare la divinità, segnata in vita da una cintura che crea l’effetto del panneggio: è avvolto da un sinuoso mantello che da una spalla scende sul braccio corrispondente raccogliendosi su esso per poi proseguire il suo sviluppo verso il basso. Il colore marrone del mantello, dai toni dimessi, simboleggia l’umiltà di Giuseppe che quasi sempre ha l’aspetto di un anziano con barba e capelli grigi, ma qualche volta è raffigurato anche giovane: la scelta dell’età dipende comunque dalla sensibilità dell’artista. 

Il Bambino ha solitamente un viso sereno, talvolta paffuto e incorniciato dai capelli mossi. È   abbigliato con una morbida tunichetta, spesso azzurra per indicare la sua divinità, che lascia parzialmente scoperte braccia e mani e mette in mostra i piedini scalzi o con piccoli sandali: con una mano può reggere un globo sormontato da una crocetta apicale, oppure un secchiello o un cuore

Il globo è simbolo di potere: con esso in mano si facevano ritrarre gli imperatori di Roma e di Bisanzio, e con il diffondersi del Cristianesimo diventò il globo crucigero, portatore di croce. Allude al potere cristiano, cioè riconosce la supremazia di Cristo, rappresentato dalla croce, sul mondo simboleggiato dalla sfera, e sui poteri terreni.

Il secchiello indica gli strumenti della passione in quanto non contiene giochi infantili.

Il cuore con fiamme, corona di spine e ferita sanguinante fa riferimento al Sacro Cuore con la ferita inferta a Gesù sulla croce e simboleggia le ferite che gli infliggono i peccati degli uomini; le fiamme alludono invece alla misericordia bruciante e all’amore ardente di Gesù verso l’umanità

Non c’è chiesa, nel territorio locale, che non abbia un simulacro del Santo, padre di Gesù: sia esso di legno, di “legno tela e colla”, di cartapesta, è sempre presente ed è oggetto di fervente devozione e di venerazione.

Grande diffusione hanno anche avuto nell’Ottocento e Novecento i “santini” con preghiera, che raffigurano il Santo nelle consuete iconografie con in braccio il Bambino o per mano, ma talvolta anche con i suoi attrezzi da falegname. Sono simboliche immagini sacre che fanno da guida alla devozione e alla preghiera dei fedeli e hanno il potere di riflettere la fede verso Dio, attraverso l’orazione del Santo.

INNO A SAN GIUSEPPE

Testo di Liborio Palmeri – Musica di Vincenzo Toscano

Registrazione live tratta dal CD Missa Parvula del 2001

Inno a San Giuseppe

Giuseppe giusto e santo
custode del Signore
a te rivolge il canto
devoto il nostro cuore.

Provato nella fede
amasti tu Maria
il Figlio che ti diede
del mondo fu Messia.

Tu esule in Egitto
Salvasti la famiglia
Speranza rese invitto
Chiunque t’assomiglia.

O abile artigiano
Donasti per amore
Il pane quotidiano
A Cristo Salvatore.

Fedele servo saggio
Patrono della chiesa
Patriarca del coraggio
Di tutti sei difesa

Nell’ultima agonia
Si affida a te chi muore
Tu indichi la via
Che porta al Buon Pastore.

Giuseppe giusto e santo
custode del Signore
a te rivolge il canto
devoto il nostro cuore
devoto il nostro cuore.


Hanno collaborato: Lina NovaraVincenzo Toscano, Salvatore Giliberti, Emanuel Mancuso, Mimmo Peraino

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